Nei cataloghi dell’Opera Bevilacqua La Masa il nome di Antonio (Toni) Fontanella compare per la prima volta nel 1937 in occasione della 28° mostra collettiva – presidente Alberto Zaiotti, segretario Teo Gianniotti – ed è registrato nella sezione: “Cartellonisti e grafica pubblicitaria” con un’opera intitolata Cartello. L’esordio di questa sua prima apparizione in una esposizione istituzionale è quindi da ritenersi un’esperienza mirata forse al tentativo di intraprendere una strada professionale verso la grafica, piuttosto che un sodalizio con la pittura vera e propria. Tanto che la distanza, tra la prima e la seconda partecipazione alle Collettive della Bevilacqua La Masa sarà piuttosto ampia, e viene documentata nella 49a edizione che si tiene nel 1961, dove Fontanella presenta – questa volta nella sezione ‘Pittura’ – l’opera Interno n.1.
La discontinuità di queste due presenze così distanti tra loro è però confermata dalla biografia di Fontanella che dichiara, nella sua cronologia, la decisione di intraprendere un mestiere ‘altro’ da quello dell’artista e il privilegio di scegliere la pittura come una passione autentica, vissuta nei tempi e nei luoghi dello spirito. La prima partecipazione nel 1937, sarà però l’occasione per Fontanella di conoscere una cerchia di pittori che poi resteranno legati tra loro in una sorta di ‘cenacolo artistico’ nella Mestre di quegli anni: Guido Carrer, Gigi Candiani, Vittorio Felisati, Mario Dinon e Giorgio Di Venere.
L’accenno agli esordi dell’artista nel contesto dell’Opera Bevilacqua La Masa, introduce inoltre la figura di Fontanella in un ‘clima’ che vede Venezia protagonista, già nel secondo dopoguerra e fino agli anni settanta, di un percorso assai stimolante per le arti figurative; il 1948 è anche l’anno della ripresa espositiva della Biennale, una ripresa strepitosa con la grande mostra dedicata agli impressionisti e l’omaggio a tre pittori metafisici italiani: Carrà, Morandi e de Chirico; senza dimenticare l’esposizione della collezione Guggenheim al Padiglione della Grecia, la mostra sugli espressionisti tedeschi, e la sala dedicata al Fronte Nuovo delle Arti nella quale troviamo artisti quali: Vedova, Pizzinato, Viani, Santomaso e Turcato.

La storia di Toni Fontanella parte quindi da Venezia, ma la sua pittura recita un linguaggio universale perché l’artista evoca nei suoi dipinti la dimensione onirica di luoghi ‘vissuti’, di atmosfere ‘frequentate’, di spazi ‘familiari’ che sono conosciuti perché ‘visti’, ma nello stesso tempo sono anche ‘luoghi dell’anima’, immagini create dalla poetica della memoria e dai ricordi di una realtà guardata con affetto e goduta attraverso gli occhi.
Dalla Venezia – riconosciuta e riconoscibile – negli ‘scorci’ poetici degli squeri, nelle curve delle Zattere e della Punta della Dogana, con l’apertura ‘ariosa’ del Canale della Giudecca, fino ai profondi orizzonti delle Barene con i pittoreschi Casoni da pesca il passo è breve. Già nei primi anni sessanta l’artista documenta un senso di solitudine e di quiete, e la vastità di quegli spazi è registrata con una personale prospettiva e con l’attenta ricerca dei cromatismi.
Il colore per Fontanella è un’esigenza intrinseca, senza simboli, allegorie, metafore o racconti, la pittura per lui diventa un’azione fisica che si espande, e che paradossalmente potrebbe non avere mai fine. Dalle prime opere degli esordi fino agli ultimi quadri, il suo stile rivela il vibrante sostegno di una luce-colore che incanta; la pennellata è sicura, decisa, e risente delle turbolenze di un’architettura compositiva mirata a scrivere, più che a descrivere, tra spinte e controspinte, crolli e rinascite, la geografia di un itinerario segreto mirato a svelare la rappresentazione stabile di un divenire.
Le molte partenze pittoriche e le riprese, che contraddistinguono il percorso artistico di Toni Fontanella hanno in comune la costante ricerca di una diversa luce, o per meglio dire di una ‘luce diversa’ che l’artista ricrea per dare alla sua pittura, non la semplice diversificazione di un tono espressivo, ma il segno distintivo di un personale punto di vista interiore, dove ogni spazio ‘abitato’ diventa uno spazio dell’anima.
La luce della laguna diventa quindi metafora di una luce interiore, il colore si trasforma in un elemento di conforto che distrae dalle ansie del quotidiano; è come se la pittura per Fontanella divenisse l’atto costante di un processo liberatorio, quasi un training autogeno per dimenticare una realtà che l’occhio non vuole vedere e il cuore non intende percepire.
Questo si evince soprattutto nei dipinti dove viene documentata la metamorfosi di un paesaggio che trasforma parte delle barene lagunari e della campagna circostante nella realtà edilizia e industriale di Marghera. In queste opere l’artista ‘fotografa’ con malinconica precisione le mutazioni di un paesaggio rurale, quasi a conservarne la memoria e a decretarne l’esistenza.
Campagna a Marghera, Prati a Marghera, Paesaggio a Marghera, sono titoli che dichiarano la cronaca di una trasformazione in atto, è una verifica incerta che diventa testimonianza di un vissuto precedente che si va esaurendo. La metamorfosi del paesaggio, da rurale a industriale, assume quindi – in questi particolari dipinti – i toni decisi del verde che contrastano l’invasione di un’orizzonte artificiale segnato dal grigio del cemento. La scelta di Marghera – città parallela a Venezia – con le fabbriche che si specchiano nella medesima laguna è un segnale che l’artista individua per documentare la memoria di quel verde perduto e lo fa scegliendo il colore di una rappresentazione incerta che ne accentua lo stravolgimento.
La sua ‘voce’, impaziente e decisa, descrive quindi il suo amore per i luoghi della memoria e l’artista si lascia catturare da quegli orizzonti infiniti, dalla poetica silenziosa delle barche da pesca abbandonate alla deriva e dalla solitudine del tempo che passa inesorabile sul paesaggio, ma anche sulle cose, sugli oggetti ‘minimi’ del quotidiano.
Come documenta anche il poeta Mario Stefani in una recensione sul Gazzettino del maggio 1999, testimoniando i nuovi soggetti frequentati dall’artista: “…Non più barene, ma ninfee, spiagge, egli osserva con attenta curiosità gli interni, infatti abbiamo Finestra sul viale con fiori, Dalla finestra della cucina, La veduta della chiesa di San Rocco, La cassetta del truccatore, Cappelli con occhiali e fiori. Fontanella ha un discorso coerente, un discorso poetico che mostra una profonda armonia e serenità dell’animo”1.
La medesima serenità che ritroviamo nelle ultime Nature morte, che però Giorgio de Chirico preferiva denominare Vita silente, perché di questo si tratta, della rappresentazione estetica di una silenziosa forma di vita che l’artista coglie nel suo momento più lirico e la restituisce intatta nella pittura.
Ed è proprio una Vita silente quella che Fontanella documenta nel cappello di paglia della moglie lasciato sul tavolo prima di andarsene, in questo dipinto l’artista descrive la presenza-assenza della persona amata in una scena lirica, lenta, quasi melodica, come se il tempo non fosse passato e da un momento all’altro lei dovesse tornare a riprendere quel cappello, quasi scusandosi per averlo dimenticato.
E’ qui che l’artista tocca le corde più alte della rappresentazione, nessuno potrebbe essere più solo di lui nel momento in cui realizza questo quadro, ma l’arte è consolatoria e nella dimensione circoscritta della tela convergono tutte le superfici del tempo che incombono sul nostro presente, abolendo ogni passato e ogni possibile futuro.

1. M. Stefani, Spiagge e ninfee, il mondo nuovo di Toni Fontanella, Il Gazzettino, Venezia, maggio 1999