Abbiamo occhi, ma non sappiamo vedere, abbiamo voce, ma non sappiamo dire quanto serve, abbiamo orecchie, ma non sappiamo ascoltare, il mondo ci sta davanti e non riusciamo a coglierne il senso e non abbiamo chiavi per dischiuderlo di fronte ai nostri dubbi irrisolti.
D’où Venons Nous / Que Sommes Nous / Où Allons Nous si chiedeva Paul Gauguin in un momento drammatico della sua vita, quando la scelta di abbandonare l’Occidente per cercare il paradiso terrestre nei mari del Sud sembrava piuttosto il naufragio dell’uomo e dell’artista. Troviamo queste parole dipinte nel cartiglio giallo posto nell’angolo superiore sinistro del suo omonimo quadro del 1897, considerato una summa pittorica e intellettuale.
A distanza di un secolo lo scultore Damien Hirst riattualizza questi dilemmi utilizzando invece la lingua inglese per la sua complessa opera realizzata con 76 differenti tipi di ossa animali: Where are we going? Where do we come from? Is there a reason.
Deposte le certezze sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, lungo tutto il Novecento la ricerca artistica ha tentato di ritrovare un impossibile stato di natura, peraltro mai esistito, o ha provato a rappresentare in forme anti-iconiche il male di vivere e la violenza di cui l’umanità è permeata. Al fondo inesorabili gli interrogativi: Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo?
Anche quando l’artista è parso volersi accontentare di riprodurre quanto cadeva sotto il suo sguardo, tanto più evidente nelle sue opere appare la distanza dalla realtà. Emblematica in tal senso la raffigurazione del paesaggio: non è un caso che la critica più aggiornata stia rivisitando proprio i pittori di paesaggio italiani e più precisamente di area veneta, perché al di là dell’apparente rappresentazione estetista di un luogo, è possibile cogliere come la ricerca di fissare sulla tela l’hic et nunc, il qui e ora, evidenzi la capacità dell’artista di partire dalle cose visibili per sublimarle assolutizzandole, trascendendo l’inesorabile divenire delle cose. Fare pittura diventa così sfrondare di tutti gli orpelli della quotidianità il proprio agire, insistere e persistere in uno sforzo antagonistico per trovare una indicazione di risposta, per quanto sommaria, a quegli interrogativi inquietanti e sfuggenti.
Oltrepassare le aporie dell’esistere rifiutando la spiegazione razionale e cercando quella naturale, così che millenni di civiltà servano a riscoprire consapevolmente lo stupore smarrito di fronte alla bellezza che promana dagli elementi primigeni: acqua, terra, cieli, luce. Paesaggi dell’assoluto diventano allora quei luoghi dove l’interpellarsi sul senso dell’esistere trova un primo punto di stabilità nell’abbandono del mondo delle cose e delle case e rimane dominante l’effusione coloristica della natura. Una natura non allo stato primigenio, ma ricreata da una presenza umana che si insedia senza violenze, assecondandone piuttosto le caratteristiche per trasformarla in una nuova dimensione dove umanità e ambiente si fondono. E l’assoluto è da intendersi etimologicamente come libero da limiti, da legami e per questo generale e universale. Come scrive Leopardi “ciò che ha in se stesso la propria ragione d’essere e costituisce il fondamento primo di tutte le cose”.
Ma che cosa c’è di più naturale e di più artificiale della Laguna di Venezia, dove l’antropizzazione plurisecolare ha naturalizzato quanto era destinato a scomparire per naturale evoluzione? Tra l’altro solo parti limitate della laguna hanno conosciuto la pietra, il mattone, il cemento e l’asfalto, mentre appena più in là l’acqua ha continuato a dominare, costellata da barene e vegetali in divenire.
Tutti questi elementi sostanziano anche il cammino artistico e i risultati estetici di Toni Fontanella. Lasciata la natia Venezia, scelse Mestre per vivere e l’anfibio universo lagunare per dipingere.
La sua pittura si basa sul farsi sopraffare dalla bellezza delle sfumature cromatiche delle superfici acquatiche, che riverberano colori inediti e quasi indicibili come i verdi e i gialli di El Greco.
In laguna abitano creature che sanno solcarne la superficie senza alterare il pur precario equilibrio: sono le semplici barche di qualche pescatore che cerca pesci su bassi fondali o aspetta paziente la muta dei granchi, collocandoli in cestoni di paglia, i vieri.
Il ragionamento pittorico di Fontanella non contempla figure umane, piuttosto sinopie del lavoro da queste condotto, nelle cavane che costellano i canali, dove riparare le imbarcazioni.
Nell’assolato meriggio delle tele di Toni domina il silenzio della calura estiva, domina l’intangibilità di un sogno ad occhi aperti.
I paesaggi da lui fissati sono di fronte a noi in tutta la loro materiale evidenza e allo stesso tempo ci restituiscono intatta l’inesplicabilità del nostro esistere.
E la vita che promana dalle tele infonde un senso di bellezza e di pacificazione, non perché le contraddizioni e le negatività siano state espunte, ma perché stanno dentro ad una capacità di racchiuderle in una superiore dimensione di bellezza e di amicizia. Non a caso la sua passione per il paesaggio lagunare, e l’intenso cromatismo che lo connota, sono stati condivisi con altri pittori mestrini, come Luigi Candiani, Vittorio Felisati, Aldo Bovo, seguendo la lunga scia dei Ciardi, Gino Rossi e Virgilio Guidi.
Rispetto a loro, Fontanella ricerca però la dimensione dell’assoluto: nelle sue tele il paesaggio si fa emozione che parla con il linguaggio della filosofia per stabilire le ragioni prime dell’esistere. Ragioni che ovviamente non possono trovare parole per essere espresse, ma nella sublimazione pittorica possono essere mostrate. Così anche le umili barene e il trascurato Osellino con le sue acque che non sono né chiare né fresche, ci dicono chi siamo e da dove veniamo.