Per primo, il Carpaccio. Mentre declina il Quat­trocento, Vittore coglie la vita segreta dell’acqua di laguna, i movimenti profondi e nascosti di quella superficie orizzontale, i toni verdastri che affiorano con l’alga e le lucentezze azzurre e bianche che piovono dal cielo.

Nel ciclo della Leggenda di Sant’Orsola, una distesa liscia e vibrante, interrotta dai dossi delle barene e dai canali, fa da sfondo al viaggio degli ambasciatori del re d’Inghilterra. Poi, passeranno i secoli su quel vitreo opalino mondo, fino alle Venezie la­gunari di Canaletto e Guardi: ciò che le accomuna alle vedute di Toni Fontanella, in un raffronto di sottile fascino, è forse la luce “di specchio”, quell’umore assieme concreto ed astratto, senza peso d’ombra eppur denso di mistero. Vedute prese dal vero con attenzione meticolosa e, nondimeno, immaginate.C’è in Fontanella, già ad una prima osservazione, una sorta di vue d’optique, una risonanza illuminista che lo avvicina di più alle tele grandangolari di Canaletto che al Ciardi del Canale della Giudecca (almeno nella fase più matura, dalla metà degli anni Settanta in poi): pulito, limpido ed altrettanto scenografico, con quel filtro di seta indefinibile che stagna sull’acqua nelle stagioni di passaggio. Tra spuma di mare e lento fluire di fiume, tra ectoplasmi di limo ora sommersi ora affioranti vagano l’occhio e l’animo dell’artista. In un gioco capriccioso, l’instabile natura ha, nei secoli, sommerso ed interrato la maggior parte delle isolette che in tempi remoti punteggiavano il catino lagunare. Non esistono più Amiana, Marcellana, Basilia, Costanziaca e Castrasia. Per ritrovare i colori ed i profumi di questo ambiente, occorre spingersi, di remo o di vela (i motori, lasciamoli per un attimo da parte, perché hanno scarsa cittadinanza nei paradisi di Fontanella) verso i limiti della gronda equorea, là dove sopravvivono le ultime valli da pesca. C’è un destino in questi luoghi per Toni, tanto è vero che il sistema di pali, reti e nasse ripreso più e più volte nelle sue tele, porta un nome nobile e semplice: “arte”. La sua laguna è un paesaggio adatto all’osservazione della metamorfosi; il movimento è tangibile e misurato, come le oscillazioni di uno strumento di precisione. Basta avere pazienza, silenzio ed occhi per cogliere le vibrazioni del canneto, o il posarsi celato del fischione turco sulle acque dolci e salmastre.L’artista, nei decenni, cambiando senza tradirsi, ha fatto mente locale: così ha espresso la capacità di segnare un luogo con la propria presenza, la propria coscienza critica. E’ un lavoro che presuppone conoscenza, sapienza dei siti e prolungata osservazione. Gli abitanti del Sahara occidentale danno nomi al diverso spostarsi delle dune, come Fontanella dipinge i casoni, con grazia e rigore. Partendo dal paesaggio conosciuto, l’artista esercita perfino la capacità di astrarre, di descrivere le cose nello spazio come volumi a sé. Tuttavia, se dimenticassimo che questa astrazione relativa ha le proprie radici nell’essere Fontanella un pittore di vedute, le proprie basi in una conoscenza diretta, negheremmo una sfera complessa e ricca, quella del rapporto tra Toni ed il territorio che ha dipinto per tutta la seconda metà del Novecento, con piccole variazioni. Difficile intuirne l’anima in certe nature morte giovanili di buona composizione (se si esclude una tipica lucentezza smaltata, talora vitrea), ma non è così anche per Van Gogh o Matisse? Vero è, invece, che ricostruire il percorso artistico di Toni Fontanella significa identificare via via un Maestro autonomo che, dai paesaggi nervosi degli anni Cinquanta e Sessanta – con qualche, sia pur minima, concessione all’astrazione geometrica – trova nel decennio successivo la propria cifra più autentica nell’analisi puntuale, ma a suo modo libera, dell’ambiente di laguna. Vi arriva per gradi, rivalutando il tratto grafico e supportandolo con una maggior precisione delle campiture, mentre il soggetto principale acquista spesso dimensioni crescenti. Paradossalmente, in un tessuto descrittivo iper-reale, restituito nella singola canna, nel più minuto fiore di barena, l’oggettività pura si fa trascendenza e la terra, le acque si trasfigurano. Toni, da ora in poi, è un geomante, una bussola nel paesaggio, anzi, la sua essenza. Lo spazio delle tele – con il passare degli anni sempre più organico, concreto, assoluto – diviene un riassunto sensibile del mondo. Pare quasi di sentirne gli odori, dal salmastro al fiorito, carico di venti lontani, profumato di terre. A poco a poco, la tavolozza si attesta sulla gamma dei freddi e l’artista ottiene rapporti tra le tonalità ricorrendo sempre più alle tinte chiare. Mai un’approssimazione, un bioccolo di pittura a suggerire: Fontanella rifiuta il verismo per restare fedele al vero, sino in fondo. Il ricordo di Carpaccio si lega indissolubilmente alla Madonna di Piero ad Urbino: come tanti prima di lui – ma la riuscita è di pochi, è dei grandi – Toni è un pittore di luce, ma ha saputo (specie nelle opere degli anni Ottanta e Novanta) andare più in là. Oltre alla luce, ha trovato – da geomante – il colore del paesaggio. Se in lui la luce conta, è perché anche la luce ha un colore. Così il reale resta nella sua giusta misura, facendosi idea, assumendo sostanza metafisica. Un po’ come succede per Vermeer, in una celebre Veduta di Delft, in cui un angolo di muro giallo è dipinto così bene da poter essere guardato con piacere assoluto. Fa capolino, inconsapevole per lo più (e ha scarsa importanza nei risultati), l’informale.Al Fontanella maturo, brusco e schivo, al suo universo basta poco, anche se quel poco è tutto: la diversità tonale fa cogliere l’indizio dell’ora, lo stato fisico, perfino il gradiente termico, il momento che passa rapido, ma resta sulla tela per noi, immoto. Il quadro è una superficie vitale in cui le cose s’inscrivono – dosate con l’esattezza del chimico – come in uno specchio ed in modo non selettivo. Ogni elemento vale e parla per sé. L’artista non suggerisce all’occhio cosa deve vedere, all’animo cosa deve sentire. Rispetta ogni singola particella di realtà, nella sua radicale indipendenza rispetto all’osservatore. La storia è più forte di chi la dipinge con amore, pazienza, ostinazione; Fontanella si fa dunque da parte, per far spiccare l’intima natura di ciò che propone. Oltre che geomante, rivelatore del mondo, si rivela cartografo di un orbe terracqueo che ci appartiene nel tempo e nei modi del nostro vivere: nel far apparire nella sua pienezza la verità dell’esistente, la rende disponibile al ricordo, al passo del racconto, al gusto dei suoi sapori. Tutto ciò è assai distante da una piatta imitazione della realtà; certo è anche tecnica, come nel vedutismo settecentesco, ma nel suo senso più puro ed alto di opera construenda, di modello.In fondo, si potrebbe pensare che sia Fontanella a creare, per noi, la laguna. Non c’è separatezza tra il quadro e l’ambiente circostante, e tale è il nocciolo autentico del reale; non c’è malizia né artificio. In questo sguardo lucido ed insieme incantato, un filo solido lega l’artista a Giotto, a Carpaccio, a Piero, passa per Canaletto e giunge sino a Cagnaccio: è la forza, splendida ed innocente, della pittura-vita.